Quarantena

Riepilogando:

sto bene, tanto che posso passare una mattinata al banco sega per appezza’ la legna; non ho mai avuto un giardino tanto ordinato.

Per chi ha passione, comunico che l’amaryllis sta fiorendo, la melissa è diventata un albero, il ribes fruttifica come non mai, la menta è rigogliosa e chiede mojito a viva voce, le rose sbocciano, gli agrumi fioriscono e riempiono l’aria di profumo, le fragole invadono la Kamçatka con tre carrarmatini, la semina del glicine ha fruttato sette nuove piante, il lampone prospera, l’abete mi sbatte in faccia tutti i suoi nuovi getti.

PERÒ

sono obbligato a starmene in malattia, senza nemmeno la visita fiscale, perché a quanto pare ho un terribile morbo che potrei trasmettere agli altri, probabilmente spingendoli a commettere atti sconsiderati tipo tagliare la siepe o imbiancare.

Dev’essere davvero una terribile malattia. Scemo io che non me ne accorgo.

Ancora più scema la mi’ figliola, che senza neanche una dose di vaccino ha fatto due giorni di febbre (oioi, attenti: ben due), poi è guarita e s’è negativizzata prima di noi, sbeffeggiandoci.

Non posso nemmeno andare a comprare il pane (quindi me lo faccio da solo) o fare la spesa e par d’esse’ nel secondo dopoguerra. Il mi’ sòcero ci lascia ogni tanto una busta di roba all’uscio, bussa e urla “AIUTI UMANITARI!”.

Ma lo stato insiste: io sono *malato* e devo stare in malattia.

Poi venitemi a dire che c’è la recessione.

O che gli insegnanti non fanno un cazzo.

E il PIL, lo spread e tutte quell’altre cazzate.

Venite.

Vi faccio vede’ il pennato, vi faccio vede’.

Sprouts!

Un tempo li compravo già pronti, i germogli. Di soia, perlopiù, ma far germinare le lenticchie è semplice, economico e soddisfacente. Così mi sono attrezzato con un po’ di corda, un vasetto di vetro e un pezzetto di rete del sacchetto delle cipolle, in sostituzione della garza che viene usata in genere; la rete delle cipolle è più pratica perché non marcisce, permette di scolare meglio l’acqua e migliora la circolazione dell’aria.

Per chi è interessato ai dettagli, le lenticchie vanno sciacquate e ammollate nottetempo, poi sciacquate di nuovo ed appese fuori dalla luce diretta. Si sciacquano due o tre volte al giorno scolando bene e riappendendo. In due o tre giorni sono così; il vasetto che prima era pieno appena per un quinto ora è occupato dai germogli; a me piacciono così, quando hanno iniziato a sviluppare anche un po’ di clorofilla.
Si mangiano crudi in insalata, come condimento, nelle zuppe, saltati velocemente in padella.
Pare facciono anche bene ma io credo che la quantità sia talmente irrisoria che non possano fare davvero la differenza; tuttavia sapete cosa? Mi piacciono e mi diverte produrli.
Ora, se solo trovassi gli azuki o la vigna radiata

Esperimento sociale

Quest’anno ho voluto fare un esperimento.
Venerdì era il mio compleanno.
Giovedì sera, intorno alle 23.30 ho oscurato la mia data di nascita su facebook.
Lo scorso anno ho ricevuto cinquantotto messaggi di auguri, oltre alle telefonate e gli sms.
In tutta la giornata di venerdì, invece, ZERO messaggi di auguri e solo cinque o sei tra telefonate e sms di familiari e parenti stretti.
Ora, io sono particolare e in genere mi ricordo i compleanni di molti amici, anche con cui non ho contatti da molti anni. Però questo fa riflettere su come oggigiorno ci si affidi ciecamente e continuamente alla tecnologia anche per le cose più intime.
Elena mi ha cucinato le triglie a tempo record, Olivia mi ha preparato una piccola caccia al tesoro con pacco, fiocco e disegni in regalo; poi mi ha cucinato i consueti muffin a cui tiene tanto, con gli M&M’s e la candelina.
Io sono molto felice.
Riflettiamo, però: quanto della nostra vita stiamo delegando alla tecnologia, alle piattaforme, ai social, ai giganti di internet, alla telefonia, e quanto stiamo seriamente rischiando di perdere all’improvviso?
Staccatevi da quei maledetti smartphone.
Smettete di essere soggetti passivi.
Riempite il mondo di contenuti.
Siate vivi.
Magari oggi è il compleanno di qualcuno ^_^

Scaturchio

A proposito di riparazioni.
La mia caffettiera napoletana si chiama Scaturchio. Ce l’ho da quasi venticinque anni, le voglio bene, fa un caffè buonissimo che non potrà mai sapere di gomma visto che non ce n’è, ma ogni oggetto ha un punto debole.
Quello delle caffettiere napoletane (che poi sono torinesi perché le produce la ILSA, e addirittura francesi come invenzione) è che i manici, originariamente di bakelite e ora in resina termoindurente, hanno la stessa identica misura sia per la caffettiera da due tazze che per quella da tre. Questo comporta che il manico della caffettiera piccola sia tanto vicino al fornello che se non si regola attentamente la fiamma tende a carbonizzare e pian piano spezzarsi, scheggiarsi e staccarsi a più riprese.
In più, il fatto è che il manico di ricambio a differenza della moka non si trova in commercio.

Scaturchio aveva un manico così, con la vite da stringere spesso perché l’appoggio sagomato del manico non faceva più presa, col rischio continuo di veder cadere tutto in terra nel momento di capovolgerla.

Ma che si può fare con un pezzetto di susino stagionato, stavolato al banco sega, lavorato con seghetto, platorello, sgorbie e fresa a candela?
Beh, molto. Un manico robusto, satinato a paglietta e lucidato con cera d’api e olio di cedro perché sia impermeabile ai lavaggi. Un manico diverso per colore e materiale ma che riprende la forma classica, con proporzioni maggiorate in punti strategici o ridotte ad arte per allontanarsi dalla fiamma. E che si veda, la differenza, come nel kintsugi l’oro sottolinea la storia di un oggetto.
A volte il punto non è risparmiare.
È una questione affettiva.

Una ryoba nuova

La storia è questa: avevo una ryoba che un giorno, inceppandosi e svergolando, si è incrinata e spezzata sulla coda.
Avevo anche un bel bastone da montagna, d’olivo, solido, che improvvisamente si è spezzato spostando delle frasche perché dei tarli maledetti l’hanno mangiato in maniera quasi invisibile a metà lunghezza, per cui col mio buon Leatherman ho segato sul sentiero il pezzo buono lasciando nel bosco quello sciupato.
La lama di ricambio della ryoba costa trenta euro.
La ryoba nuova costa trenta euro.
Riparare la ryoba col moncone d’olivo del bastone da passeggio, due fori ben fatti, due viti inox e due dadi autobloccanti costa cinquanta centesimi.
Più il lavoro, ovviamente.
La differenza tra un approccio consumistico e uno ecologico vale ventinove euro e cinquanta, la manualità acquisita, un attrezzo a cui voler bene e una sensazione di felicità che nessun negozio online saprà mai darti.
Non ricomprate i vostri oggetti, imparate a ripararli.
Poi, insegnate ai vostri figli a ripararli.

Rock in Rietto

Normali. Sentirsi normali.
Seduti sulle presse di paglia, a indovinare che pezzo viene dopo.
L’odore del bòzzo non dispiace nemmeno; non che crei atmosfera, diciamo che fa parte del contesto, quel contesto in cui ho bazzicato per anni e col quale ormai ho una certa familiarità. Un Lake District coi suoi poeti dal coriaceo cotrione e dal grande cuore. I gesti che non ti giudicano, come offrirti una sigaretta da non fumatore, perché magari a te fa piacere, chissà.
E poi una serata intensa, l’impianto che spinge forte ma solo fino al punto giusto; le susine a volte cadono in testa perché i bassi le rendono consapevoli della loro maturità e riportano alla realtà quel momento di un concerto in cui rischi di perderti a pensare, concentrato sulle lampadine accese come una falena ubriaca.
Esterina suona. E come suona.
Mi volto, ogni tanto; la gente è felice, le ragazze sollevano i piedi nudi sulle presse e cantano, qualcuno scatta qualche foto ma la cosa più bella è che tutti guardano e ascoltano con gli occhi e le orecchie. Nessuno gira video, nessuno filtra la realtà attraverso nessun cazzo di smartphone.
Non stavolta.
C’eravamo, con la pancia e col cuore.
E siamo stati bene lì, sulla paglia, tutti insieme.

I concerti di Rietto – La mia ragazza – 04.07.2021

Megatokyo

Esattamente dieci anni fa sarei salito su un volo diretto che in dodici ore mi avrebbe portato a Narita, Tōkyō.
Oggi sarebbe impensabile; ogni novembre, tuttavia, un po’ di quel viaggio riemerge a tirarmi per la manica e mi costringe a fare cose che per la maggior parte di voi parrebbero insensate o insignificanti: raccogliere al volo foglie che cadono dagli alberi, avvolgere oggetti nei fazzoletti, cucinare spiedini di pollo, foderare libri, contare i passanti affacciato alla finestra, pedalare sul marciapiede, passeggiare lungo un canale, acquistare cancelleria e fare lunghi bagni nella vasca.
Ma ieri, quando ancora non avevo realizzato che data fosse, non so quale strano istinto mi abbia spinto a disegnare Miho-chan, il personaggio più misterioso e affascinante di Megatokyo. Tutta in matita rossa, à la Dautremer, della quale tra l’altro rammento la copertina per l’ultimo libro di Morosinotto, decisamente in tema.
Ora so come mai; colgo i collegamenti, sorseggio tè col riso tostato.
E sorrido.

Qualcosa in più

C’è sempre qualcosa in più nel comprare un libro in libreria invece che farselo sterilmente spedire dopo qualche click.
Puoi toccarlo, far scorrere le pagine e sentire il rumore e il profumo della carta, che cambia da edizione a edizione; puoi incontrare libri di cui altrimenti non verresti a conoscenza, flirtare con una copertina, scoprire un buon romanzo mentre rovisti in mezzo alla saggistica; puoi lasciare messaggi segreti e pamphlet tra le pagine dei libri, per chiunque li trovi dopo che te ne sarai andato; puoi sostenere una libreria, scambiare due chiacchiere col libraio e magari avere indiscrezioni sulle prossime uscite che il software di magazzino preannuncia ma che nessun sito ti dirà mai.
E infine puoi tornare a casa col libro che accompagnerà le prossime giornate piovose, fermarti a prendere un caffè e una sfoglia al riso godendoti l’idea semplice di una poltrona e una buona lettura.