Megatokyo

Esattamente dieci anni fa sarei salito su un volo diretto che in dodici ore mi avrebbe portato a Narita, Tōkyō.
Oggi sarebbe impensabile; ogni novembre, tuttavia, un po’ di quel viaggio riemerge a tirarmi per la manica e mi costringe a fare cose che per la maggior parte di voi parrebbero insensate o insignificanti: raccogliere al volo foglie che cadono dagli alberi, avvolgere oggetti nei fazzoletti, cucinare spiedini di pollo, foderare libri, contare i passanti affacciato alla finestra, pedalare sul marciapiede, passeggiare lungo un canale, acquistare cancelleria e fare lunghi bagni nella vasca.
Ma ieri, quando ancora non avevo realizzato che data fosse, non so quale strano istinto mi abbia spinto a disegnare Miho-chan, il personaggio più misterioso e affascinante di Megatokyo. Tutta in matita rossa, à la Dautremer, della quale tra l’altro rammento la copertina per l’ultimo libro di Morosinotto, decisamente in tema.
Ora so come mai; colgo i collegamenti, sorseggio tè col riso tostato.
E sorrido.

Un angolo di Giappone

C’è, nel complicato scorrere dei miei giorni, un angolo di Giappone. Non in senso fisico, di spazio; non ho un’aiuola di ghiaia da pettinare a margine del giardino né furin che penzolano nella veranda in attesa di una brezza che non soffia mai. Si tratta di un luogo mentale che emerge all’improvviso trascendendo la fisicità e il deliberato confinare per sbocciare inaspettato nelle maniere più disparate; è sentire che qualcosa cambia, l’inevitabile trascorrere del tempo; è ascoltare le rane, a notte ormai fatta, che accompagnano il suono della tua passeggiata notturna; è percepire il passaggio delle stagioni, l’aria fresca di settembre, attendere l’autunno, desiderare novembre; è foderare inconsapevolmente il libro che sto leggendo oggi, per discrezione o – piuttosto – per non ostentare; è l’elogio della manualità, respirare trucioli di legno, la polvere del vialetto, riparare un oggetto che ti hanno chiesto di buttare; è prendersi cura delle piante, seminare come forma di speranza, come santificazione del futuro; è – proprio come stamani – stendere i cestelli ad asciugare e combattere un’improvvisa nostalgia prima di abbandonarvicisi e lasciare che il sole faccia il proprio lavoro.

Per me l’angolo di Giappone è tutto questo. Non la mitizzazione di una cultura, non l’essere otaku di quella stessa società che il concetto di otaku ha generato, rifocillato e porto con affettata gentilezza a un incantato Occidente.

Non occorre fingere di essere giapponese; è un diverso sentire nei nostri stessi gesti quotidiani; qualcosa che le foglie di quel novembre hanno cambiato, per sempre.

Just like Ueno

sushi

Esattamente sei anni fa passeggiavo per le strade di Ueno, il quartiere popolare di Tōkyō, e ogni anno quando arriva novembre non faccio che girarmi in qua e in là per guardare le foglie sugli alberi, pensando che a pranzo, col freddo che ormai è arrivato, una bella ciotola bollente di udon non sarebbe poi male. Così oggi, in pausa pranzo, giusto per alimentare questa specie di nostalgia sognante, ho deciso di fare qualcosa di tipicamente giapponese: comprarmi il bentō al supermarket. Certo, non è un piccolo konbini e la birra che ci bevo insieme non è una Asahi ma concettualmente è davvero tutto perfetto. Mangiare fuori casa, il sushi spogliato di quella costosa sacralità che noi gaijin riteniamo necessaria per poterlo considerare buono, l’accoppiata classica con una birra o con l’acqua fredda e non con bevande assurdamente esotiche come un sake, tutto questo è così giapponese. E piccole sciocchezze come il contenitore per la shōyu a forma di pesce esattamente come trovereste laggiù o su un volo della JAL, mangiare su una panchina sotto platani attentamente potati ad ombrello e coreografati con bastoni di legno a dare il giusto verso a ciascun ramo, rendono un pranzo di un quarto d’ora simile a una macchina spazio-tempo.
Basta poco.
È che noi, quaggiù, mitizziamo tutto; l’esatto contrario dell’approccio giapponese, che fa dell’ordinario la massima straordinarietà.
Come un pezzetto di pesce su un pugnetto di riso. 
Exactly six years ago I was walking through Ueno streets, in Tōkyō’s working class district, and every year when November comes I turn my head around looking at the leaves on the trees, thinking that in this cold weather I wouldn’t dislike a hot bowl of udon. So today, at lunck break, just to feed this sort of dreamy nostalgia, I decided to do something tipically Japanese: buying my bentō at the supermarket. Sure, t ain’t a small konbini and the beer I drink with it is not an Asahi but everything is really conceptually perfect. Having my lunch out, that sushi deprived of that expensive sacredness that we gaijin believe to be necessary to be able and rate it good, the classic pair with a beer or cold water and not with weirdly exotic drinks like sake, all this is so Japanese. And little trifles like the small fish-shaped shōyu bottle as you can find there or on board of a JAL flight,having lunch on a bench under carefully pruned plane trees which someone arranged with wooden sticks to direct each single branch, transform a fifteen minutes lunch in a space-time machine.
It’s enough.
The fact is that we, here, idealize everything; the exact opposite of  the Japanese approach, which finds the greatest uniqueness into the ordinary.
Just like a bit of fish on top of a handful of rice.

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Una meravigliosa ghirlanda vorticante

uenoQuesto stesso giorno, cinque anni fa, prendevo un aereo su cui avrei passato dodici ore. Sarei arrivato in una Ueno dal cielo piatto e filtrato da un garbuglio di centinaia di cavi elettrici e telefonici; un quartiere popolare della smisurata Tōkyō, un piccolo ryokan in cui, poco più di vent’anni prima, aveva dormito Pete Seeger. Era l’inizio del più bel viaggio che abbia mai fatto e che, puntualissimo, ogni novembre non manca di farmi nuovamente visita. Mi costringerà a riguardare le foto, a cucinare udon, a ridere e persino trattenere qualche luccicone agli occhi, tirar fuori oggetti curiosi, guardare fuori dalla finestra con la speranza di veder passare i karasu invece delle solite tortore.
Sono le mie personali celebrazioni giapponesi, quelle delle piccole abitudini, del fazzoletto in tasca, delle foderine in carta per i libri in lettura, del bicchiere di genmaicha al rientro da una fredda e spossante giornata. Ogni anno dal 12 novembre al 28 vivo due realtà parallele: quella che vedono i miei occhi e quella che vede la mia testa, miscelate continuamente, inscindibilmente e incomprensibilmente in un’unica meravigliosa ghirlanda vorticante.

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Due anni dopo.

Oggi, nella giornata in cui Google Italia decide di celebrare la nascita di DNA (pace all’anima sua e grazie per tutto il pesce) in Giappone pensano ad altro e fanno i conti con quello che è rimasto.
Il problema della radioattività resta secondario se guardato in sé; il fatto è che la ricostruzione lampo che pareva essere partita subito dopo il disastro non è mai avvenuta. Ricordo bene le foto del prima e del dopo affiancate, a far vedere che in Giappone no, non sono l’Italia; laggiù mica perdono tempo, ricostruiscono tutto.
E invece, nonostante le consultazioni con le università, le valutazioni d’efficacia dei sistemi di decontaminazione e le tecniche messe a punto per portarli a compimento, tutte le operazioni sono in mano alla Kajima Corporation, la più grande impresa di costruzioni del Giappone, che si limita a raccogliere materiale – si parla di decine di milioni di metri cubi – e abbandonarlo in grandi sacchi lungo le strade deserte o a bagnare le strade con le pompe risciacquando le polveri superficiali e impedendo loro di volare ma anche facilitandone la penetrazione nel terreno col rischio concreto di peggiorare irreparabilmente le cose.
La gente è fuggita ma proprio come faremmo noi non regolarizza le variazioni di residenza per non perdere i sussidi statali (come se uno che ha perso la casa e la sua vita di ricordi, affetti, lavoro e famiglia non meritasse di essere aiutato anche se fugge da un’area contaminata da radiazioni; lo biasimereste?) e così intere città sono deserte di fatto ma non nei conteggi ufficiali. Perlomeno si è evitato che il danno si spandesse per anni cone successe a Chernobyl grazie al cibo e all’acqua. Una misera consolazione.
Noi l’abbiamo presto metabolizzato, questo disastro. E’ uno dei tanti.
Sì, ok, è enorme, ma la constatazione terribile da fare è che al giorno d’oggi ogni cazzata è tanto spettacolarizzata da passare sui media al pari delle più enormi catastrofi. Tutto è a livello 10. Tutto è pompato al massimo.
Se oggi un’automobile investe un topo (e tornando a DNA ok, lo so, sono gli esseri più intelligenti dell’universo e sarebbe un vero peccato) la notizia, nelle mani del giusto manipolatore, riuscirà a spodestare dagli onori della prima pagina anche un colpo di stato in Canada.
Io però non me lo dimentico.
Ho pochi amici là, e neanche un paio di settimane fa a 150 km da Tokyo c’è stata una scossa tanto forte che anche i nostri sismografi l’hanno avvertita e monitorata come se fosse stata rilevata sul territorio nazionale.
Era una scossa di magnitudo 6.2, trenta secondi di oscillazioni per i grattacieli della capitale giapponese.
Un tweet veloce, la conferma che non c’è niente di cui preoccuparsi. “Non l’ho neanche sentita, ero in strada e camminavo” mi ha tweetato un’amica. Da non crederci.
Ma Fukushima Daiichi è poco più a nord, tutto è ancora precario, tutto diventerebbe una catastrofe se si dovesse abbattere sulla zona un nuovo sisma o anche un nuovo maremoto con onde appena più alte di quei cinque metri e mezzo di muro che avrebbero dovuto proteggere l’impianto. Per dire, all’isola di Gorgona la scorsa settimana erano segnalate onde di cinque metri e non c’era nessun maremoto.
Ma noi in Italia, oggi, se sentiamo la parola “tsunami” ormai pensiamo solo a Beppe Grillo. E’ un gioco, anche lo tsunami, una cosa da nulla.
Non per me.
C’ho lasciato un pezzetto di cuore laggiù. Ora è contaminato.
E io oggi penso a quelli che non hanno più nulla.
A quella cinquantina di disgraziati che ha condotto le operazioni d’emergenza a disastro appena avvenuto; persone che moriranno male con l’aggravante tutta giapponese del peso della responsabilità. “Eroi” per una visione americana e occidentale della cosa (perché noi siamo plasmati dai film americani e dalla figura dell’eroe che si fa sbriciolare – restando sempre vivo però –  per salvare il mondo) ma “Feccia” per la società giapponese che carica loro addosso tutto il fardello dell’inadeguatezza. In un paese dove i treni spaccano il secondo non si premia chi evita i ritardi, perché fa solo quello che deve fare. Figuriamoci se non previene un disastro.
A noi è sembrato di stare al cinema, l’ennesimo film americano d’azione in proiezione per il weekend. Un po’ di gadget, lo spinoff linguistico sui termini “Fukushima” e “Tsunami”, poi si passa oltre.
Ditelo a loro, se avete il coraggio.
Diteglielo senza vergognarvi, che non è stato nulla.
Oggi loro sono là, a sfilare per le strade e dimostrare, come non hanno mai fatto in millenni di storia.
Per la loro salute e sicurezza, per quella dei loro figli.
Per un mondo meno delirante.
Perché la gente non dimentichi.