Scaturchio

A proposito di riparazioni.
La mia caffettiera napoletana si chiama Scaturchio. Ce l’ho da quasi venticinque anni, le voglio bene, fa un caffè buonissimo che non potrà mai sapere di gomma visto che non ce n’è, ma ogni oggetto ha un punto debole.
Quello delle caffettiere napoletane (che poi sono torinesi perché le produce la ILSA, e addirittura francesi come invenzione) è che i manici, originariamente di bakelite e ora in resina termoindurente, hanno la stessa identica misura sia per la caffettiera da due tazze che per quella da tre. Questo comporta che il manico della caffettiera piccola sia tanto vicino al fornello che se non si regola attentamente la fiamma tende a carbonizzare e pian piano spezzarsi, scheggiarsi e staccarsi a più riprese.
In più, il fatto è che il manico di ricambio a differenza della moka non si trova in commercio.

Scaturchio aveva un manico così, con la vite da stringere spesso perché l’appoggio sagomato del manico non faceva più presa, col rischio continuo di veder cadere tutto in terra nel momento di capovolgerla.

Ma che si può fare con un pezzetto di susino stagionato, stavolato al banco sega, lavorato con seghetto, platorello, sgorbie e fresa a candela?
Beh, molto. Un manico robusto, satinato a paglietta e lucidato con cera d’api e olio di cedro perché sia impermeabile ai lavaggi. Un manico diverso per colore e materiale ma che riprende la forma classica, con proporzioni maggiorate in punti strategici o ridotte ad arte per allontanarsi dalla fiamma. E che si veda, la differenza, come nel kintsugi l’oro sottolinea la storia di un oggetto.
A volte il punto non è risparmiare.
È una questione affettiva.

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