Un lungo viaggio

Dobbiamo tutti qualcosa a Willie Reginald Bray.
Fu, agli albori del ‘900, il re incontrastato dell’esplorazione del sistema postale britannico; Bray riuscì in diverse imprese tra le quali quella di spedire sé stesso, in perfetta osservanza del regolamento postale.
Ecco come mai, memore degli esperimenti sulla riproduzione dei francobolli della serie “castelli d’Italia” che realizzai a matita ormai trent’anni fa e utilizzai con successo per spedire lettere e cartoline, quando ho visto un involucro abbondantemente affrancato giacere per strada in attesa del ritiro della carta non ho potuto fare a meno di raccoglierlo e tentare un esperimento.

Ho realizzato la cartolina mostrata nelle immagini, l’ho scritta, affrancata con uno di quei francobolli e spedita a me stesso.
Il punto è che quei francobolli erano tutti greci. Una ventina di francobolli greci da due euro l’uno, alcuni annullati e altri no.
Approfittando di una serata conviviale ho imbucato la cartolina una domenica sera nel piccolo paesino di Terrinca, sulle Apuane. Il giovedì successivo la cartolina era nella mia cassetta delle lettere, il francobollo annullato dall’ufficio postale di Firenze.

In sostanza, la cartolina è stata ritirata il lunedì mattina, è scesa a valle fino al centro di smistamento di Pietrasanta, poi è finita a Firenze che l’ha smistata nuovamente e inviata ancora a Pietrasanta da cui, raggiunto l’ufficio locale, è stata affidata all’amorevole cura di un portalettere che l’ha portata a casa mia.
In termini di distanze, in linea d’aria, per coprire appena sette chilometri e mezzo, la cartolina ne ha percorsi centoottanta, con affrancatura estera e quindi non valida. Abbastanza assurdo.
Per rimanere quindi nell’ambito dell’assurdo, il testo della cartolina recita così:

“Egr. signor Melillo, in merito al suo ritrovamento del reperto B-345 nell’ambito della campagna 2019-2020 l’Associazione Ottomana per l’Effervescenza dei Bivalvi ringrazia sentitamente.”

Prossima meta: viaggio intercontinentale.

Il gatto

Alle sei e un quarto suona la sveglia, inesorabile. La annichilisco, resto qualche minuto nel letto indeciso se alzarmi o fingere la paralisi, poi mi alzo. Vado in cucina, preparo la colazione con calma e mentre il tè fa il suo bagnetto giornaliero io vado in bagno a fare il mio. Albeggia. Mi lavo e mi vesto, poi torno in cucina dove verso la prima tazza di tè, rabbocco l’acqua nella teiera come facevano gli studenti squattrinati in Russia ai primi del ‘900 e affetto il dolce. Bevo. Mangio. Alterno le due cose mentre da solo, nel silenzio delle sei, rifletto su quel che capita. Poi mi verso la seconda tazza di tè e mentre la sorseggio e penso a chissà cosa, d’un tratto lo vedo. È lì, sotto al panchetto da violoncello, rintanato accanto al termosifone – dove presumibilmente si sta abbastanza bene – e mi fissa.

Un gatto.
Nero.

Io non ho un gatto.

Oddio, e questo? Che ci fa un gatto in casa? Perché mi fissa? Ma soprattutto da dove è entrato? La sera Elena fa il giro di porte e finestre, non può esserci nulla di aperto; mentalmente faccio di nuovo il giro di porte e finestre e sono tutte chiuse. Dev’essere entrato ieri sera; tutta la notte in casa e grazie al cielo non abbiamo più quei salami affumicati còrsi appesi in cucina, altrimenti addio. Lentamente mi alzo per vedere se lo prendo ma lui mi fissa e non batte ciglio. Me lo immagino quasi che pensa “ma questo cosa vuole da me? Perché non torna a letto e dorme?”. In pochi passi sono lì, mi abbasso e all’improvviso, mentre mi sembra che stia per scappare, sono sopraffatto da un pensiero che in un istante diventa limpido e inespugnabile:

primo, se qualcosa è impossibile allora non può accadere.

secondo, la mattina faccio bene a berne due, di tazze di tè perché è evidente che una sola non basta a svegliarmi tanto da farmi distinguere un enigmatico e inquietante gatto nero da uno degli stivaletti di Olivia con bottoni a clip in acciaio che – bontà sua – mai una volta rimette al proprio posto.

E ora è tardi, devo correre al lavoro dove probabilmente mi servirà una qualche scusa.
Darò la colpa al gatto.

Una giornata

Una giornata come tante. Ecco cos’è stata. Il rientro a scuola, forzato dentro un’auto che avrei preferito non guidare, resa più sopportabile dal primo degli ZZ Top a un volume poco oltre il rilassato; rivedere vecchi colleghi, sentire i cori d’esultanza dei ragazzi passando davanti a una porta, ritrovare gli angoli familiari di posti noti, la fila di pioppi che tremano esitanti lungo il fosso color petrolio; tornare a casa, mangiare, godersi col caffè un piccolo cupcake grande quanto un tappo di spumante con sopra una candelina, leggere in pace un Maigret d’annata, di quelli con la copertina di Pintèr, un momento di estraniazione teletrasportato lungo i canali della Marna a guardar passare le chiatte cariche di ghiaia. E poi due passi in paese, mentre loro ti vanno a comprare un libro che sai già che ti farà felice; godersi l’aria fresca e inspiegabilmente asciutta, cenare con quel che c’è trasformandolo in una festa, stappare una bottiglia di rosè e pensare per un momento a Montale; Fabio, non Eugenio, che c’entra Eugenio? Uscire a buio fatto perché l’acqua è finita, arrivare al Fontanaccio accompagnato dalla dolce voce di Edie Brickell e constatare che fa ancora caldo e che è lo scrosciare ininterrotto dell’acqua a rinfrescare la faccia; dire buonasera a degli estranei, inciampare al buio senza farsi male, sorridere perché è per guardare in cielo che hai inciampato; perché le nuvole chiazzano la notte di luce come meduse sotto al pontile e non ti fanno vedere le stelle ma va bene lo stesso.
Non penso a quanti anni siano, ma a raggiungere il letto, dove siamo insieme. Il letto è morbido, ed è piacevole condividerlo. Anche dormire, con queste premesse, è un gran regalo.
Buon compleanno, Ale.
P.S.: Il libro, lo sapevo, mi ha reso felice.

Un angolo di Giappone

C’è, nel complicato scorrere dei miei giorni, un angolo di Giappone. Non in senso fisico, di spazio; non ho un’aiuola di ghiaia da pettinare a margine del giardino né furin che penzolano nella veranda in attesa di una brezza che non soffia mai. Si tratta di un luogo mentale che emerge all’improvviso trascendendo la fisicità e il deliberato confinare per sbocciare inaspettato nelle maniere più disparate; è sentire che qualcosa cambia, l’inevitabile trascorrere del tempo; è ascoltare le rane, a notte ormai fatta, che accompagnano il suono della tua passeggiata notturna; è percepire il passaggio delle stagioni, l’aria fresca di settembre, attendere l’autunno, desiderare novembre; è foderare inconsapevolmente il libro che sto leggendo oggi, per discrezione o – piuttosto – per non ostentare; è l’elogio della manualità, respirare trucioli di legno, la polvere del vialetto, riparare un oggetto che ti hanno chiesto di buttare; è prendersi cura delle piante, seminare come forma di speranza, come santificazione del futuro; è – proprio come stamani – stendere i cestelli ad asciugare e combattere un’improvvisa nostalgia prima di abbandonarvicisi e lasciare che il sole faccia il proprio lavoro.

Per me l’angolo di Giappone è tutto questo. Non la mitizzazione di una cultura, non l’essere otaku di quella stessa società che il concetto di otaku ha generato, rifocillato e porto con affettata gentilezza a un incantato Occidente.

Non occorre fingere di essere giapponese; è un diverso sentire nei nostri stessi gesti quotidiani; qualcosa che le foglie di quel novembre hanno cambiato, per sempre.

La Casa degli Omini

Quando ci siamo trasferiti, nonostante tutti i problemi dovuti al rumore, all’umidità, al fatto di vivere in un condominio bizzarro e a tutto l’inquinamento che l’incrocio della provinciale può portare in casa, un po’ di nostalgia ha iniziato a farsi sentire. Non tanto perché in quella casa abbiamo mosso i primi passi come famiglia, quanto perché la follia psichedelica di vivere attorniati da quindici semafori ne ha caratterizzato il nome e l’essenza stessa. Quindici, alcuni abbattuti dal vento del marzo 2015, altri affiancati da telecamere girevoli proprio all’altezza del terrazzo, sempre lì con noi a colorare le serate, a illuminare le stanze, a regalarci spettacoli scintillanti di pioggia battente che ci rimbalza sopra o ondeggiare pericolosamente durante le burrasche; quindici buffi dispositivi che hanno dato a quell’appartamento l’ormai familiare nome di “Casa dei Semafori”.

La casa in cui ci siamo trasferiti è diversa. Niente condominio, un ingresso al piano terra, un giardino intorno, e nonostante ci troviamo a margine di una rotatoria (niente semafori dunque) il traffico sembra distante, un po’ per la siepe e un po’ per gli infissi nuovi e piuttosto efficienti. Restava il dubbio di come chiamarla. Come mi riferisco a questa casa, nel parlarne con gli altri? Come determino l’esistenza di questa casa come luogo e non solo come edificio in cui vivere? Potevo fare riferimento al fatto che ci sono due numeri civici distinti, uno attuale e uno appartenente alla vecchia numerazione dismessa. O alla rotatoria, e alla grottesca scultura bronzea di un gallo che sormonta un enorme nocciolo di pesca in marmo che ne segna surrealmente il centro. O ai due enormi pini che fiancheggiano il cancello d’ingresso e incombono minacciosi sul tetto.

Il dilemma mi divorava finché uno di questi giorni, nel salotto in cui una ampia e luminosa finestra a scorrere mi invita a godermi la luce bassa del tardo pomeriggio, non ho scorto loro.
Gli Omini.

Stanno lì, immobili, e guardano dentro. Lo so, che guardano dentro. Scioccamente indifferenti, come se davvero dovessero segnalare la presenza della pista ciclopedonale o dell’attraversamento stradale, sono girati verso casa e cercano il mio sguardo. Altrimenti per quale motivo il cartello avrebbe quella posizione? Il comune vuole forse ricordarmi che, se esco di casa, posso attraversare la strada? No. Sono loro, gli Omini, che cercano complicità, qualcuno con cui scambiare un’occhiata, un cenno di approvazione per il loro lavoro, un rapido riferimento al tempo che va peggiorando o al sole che timido si fa vivo di nuovo dopo una settimana di pioggia.

Ormai siamo amici, specialmente con Uno. Sì, li chiamo così: Uno, Due e Tre, i tre omini che su questo lato della rotatoria fanno comunella e guardano cosa succede in casa, se adobbiamo per il Natale o se prepariamo qualcosa di buono. Uno è proprio di là dalla siepe, è un tipo tranquillo, riservato ma simpatico; se volete ve lo presento, basta che passiate a trovarmi qui, alla Casa degli Omini.

L’ultimo giorno di scuola


E così anche quest’anno scolastico è finito, tra gli applausi dei ragazzi, suppliche di tornare l’anno prossimo e proposte di petizioni per la riconferma. Sarebbe bello che i ragazzi potessero decidere, o che potessero almeno avere voce in capitolo; un po’ in nome della continuità didattica di cui si parla come si può parlare di Babbo Natale, un po’ perché forse ne sanno più loro di un’arida e triennale graduatoria provinciale, un po’ perché ci sono colleghi in gamba con cui fare squadra e le squadre non le smembri ogni sei mesi. Però c’è la Buona Scuola (dice) a pensare a tutto; quella che per accedere al percorso propedeutico all’insegnamento ti chiede non solo di avere già le competenze che il percorso ti dovrebbe insegnare ma disconosce in blocco quelle acquisite, che invece qualche anno fa riteneva fondamentali per poterti laureare ed esercitare una professione.
Comunque chi se ne frega, ho preso il bicchiere più grosso che ho, doppia dose di Bombay, tonica, limone, menta fresca e rim salato.
In bocca al lupo, ragazzi.

Babbo

La festa del babbo è trovare una strategia per fare in modo che nessuno turbi la tua pace. Il che, ovviamente, include far felice la mamma, che non avrà nulla per cui brontolare.
Quindi cosa c’è di meglio che preparare patatine fritte e moules marinières alla normanna (ovvero con una consistente dose di crème fraîche) accompagnati da una birra alsaziana fresca e abbondante?
Non fosse per il mal di gola e abbassamento di voce che mi tormenta da una settimana, il top sarebbe accendere la mia pipa preferita con una robusta carica di Virginia fermentato, ma non si può avere tutto. Accontentiamoci di quasi tutto.

Relax

Tra i miei concetti di relax c’è questo; un platano, prato asciutto su cui sedersi, la linea del tronco che si raccorda col terreno e ti permette di stare appoggiato comodamente, a metà mattinata, dopo un caffè corretto sambuca (al vetro) e una sfoglia al riso, con una rondella di kentucky in una buona pipa e l’arietta che ti salva dall’afa. Alzi gli occhi in alto e vedi questo. Rami, foglie, la certezza di qualche minuto in santa pace.
Lo pensavo prima, che ne ero distante, l’ho pensato da adulto e professionista, da lavoratore “di fatica” e continuo a pensarlo ora che da un anno lo sono anche io: quello dell’insegnante, nonostante le rotture di coglioni, i tempi morti, la pesantezza di testa in certe giornate, le assurdità e le incongruenze, certa intollerabile incompetenza e fortunatamente poche piccole frustrazioni del tutto tollerabili, beh, quello dell’insegnante è un mestiere privilegiato.
Datemi retta.

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