The Last Waltz

Neanche un mese fa ero al cinema.
C’ero perché proiettavano “The Last Waltz” e l’occasione di vederlo sul grande schermo era ghiotta. Trentacinque anni fa l’unica chance era una seconda serata sulle tv private, in televisori francamente imbarazzanti.

Sentirli e vederli è stato emozionante, nella sala quasi completamente vuota, con un ventilatore ad alleviare il caldo di luglio; era un po’ come essere lì.
Lo sguardo spiritato di Richard Manuel, Levon Helm che canta “The Night They Drove Old Dixie Down”, il groppo in gola per qualcuno che non c’è più e che ti piacerebbe fosse ancora tra noi; la solennità di Garth Hudson e le sue incredibili performance all’organo. L’inconfondibile silhouette di Joni Mitchell che canta i cori fuori scena, prima di salire sul palco e incantare tutti; l’irruenza incontenibile di Van Morrison; un Neil Young quasi imbarazzato.

E Robbie Robertson.
Inossidabile.
Un leader in disparte, una roccia che non ha bisogno di mettersi in mostra.
Ecco, Robbie Robertson per me era una sorta di icona, la cui scomparsa non poteva neanche essere contemplata. Invece ieri se n’è andato, offuscato da molte altre notizie, scomparse celebri, disastri naturali, guerre.

In disparte, come sul palco.
E io sono un po’ più triste.

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