S.Ermete

Per S.Ermete al Forte c’è la fiera. In pratica è il mercato gonfiato con gli ormoni. Un po’ perché è enorme, sono circa quattrocento banchi, e un po’ perché le turiste giocano a fare le splendide presentandosi con poco più di quel che si metterebbero in una spiaggia nudista. Il casino regna sovrano, fin dal mattino. I banchi della porchetta sfornano panini a ritmo sostenuto, gli imbonitori declamano le incredibili virtù delle forbici multilama, dello smacchiatore che toglie anche le macchie aliene e della colla che incolla anche la bocca di tua moglie che, del resto, in spiaggia non si cheta un secondo. Fa caldo. Un caldo bestia. Tutti girano come spermatozoi impazziti e cercano di concludere l’affare del secolo. Io ci compro le mutande, che vengono poco, e anche una camicia a quadri. E se giri per le strade libere noti i nomi scritti col gessetto sul cordolo grigio del marciapiede: Bouba, Ndeye, Fatou, Myryam… a quanto pare gli ambulanti abusivi si sono già spartiti il territorio per il grande ingresso in scena, quello dopo le cinque del pomeriggio quando tutti chiudono un occhio; nel frattempo si riposano all’ombra di qualche pianta nelle aiuole davanti al comune, bevono un succo di frutta e aspettano il momento buono. Quest’anno il mercato l’hanno spalmato principalmente su due parallele e così dà l’impressione di essere meno grande, meno affollato, ma è il solito di sempre. Bimbi che strillano, ambulanti che incassano e fanno i resti, tutti diligentemente presi a battere scontrini perché in queste occasioni la finanza non perdona. Tutto questo affannarsi perché, per chi non lo sapesse, S.Ermete segna la fine dell’estate. Sì, la fine. Poi tutti se ne vanno, tutto finisce, tutto ritorna legittimamente nelle mani dei fortemarmini (tranne quello che i russi ormai si sono comprati), di quelli che giocano a carte sui tavolini di plastica alle fontane e di quei cinque o sei che continuano a frequentare il pontile, magari quando il tempo fa schifo così stanno in santa pace. I professionisti della bischerata, della spacconata, del discorso scemo da villeggiante, dello sfondone da vacanziere se ne tornano nella metropoli dove spostandosi con la metro perlomeno riescono ad andare dritti, non come quando mantengono a fatica l’equilibrio sulla bici dell’albergo e ti si piantano dritti davanti mentre cerchi di battere il tuo record personale sulla provinciale.

Il pontile è chiuso. Da un giorno buono. Perché la sera ci sono i fuochi d’artificio, ovviamente più belli di quelli dell’anno scorso ma tanto chi se ne frega, io l’anno scorso non c’ero quindi sono un privilegiato; i fuochi li sparano dal pontile, un po’ in aria e un po’ in mare, con le meduse sconcertate a chiedersi che ci facciano là fuori dei parenti tanto stravaganti e come mai scompaiano così velocemente. Noi i fuochi non siamo andati a vederli sul mare ma sul tetto di casa, che è un bel terrazzo piano a due passi dal fiume; anche se rimangono un po’ dietro a un grande albero si vedono lo stesso, senza la ressa, con l’unico inconveniente dell’audio fuori sincrono di sei secondi, per la distanza, e i botti che rimbombano sulle Apuane, alle spalle, che rifiutano un festeggiamento tanto mondano e rispediscono il suono al mittente. Anche gli autoarticolati che sfrecciano a centocinquanta metri di distanza, sulla sopraelevata dell’autostrada, non sono da meno in quanto a luci colorate e mi domando che sorpresa provino tutti quelli che passano e senza saperlo si ritrovano delle colonne di scintille colorate incorniciate dai finestrini dell’auto, che si innalzano all’improvviso come se qualcuno li stesse aspettando e facesse partire una salva di benvenuto. Ecco, i fuochi devono essere cento volte più belli se non te li aspetti. Ce n’era di ogni genere. Anche uno a forma di Hello Kitty ma a quanto pare l’ho visto solo io e forse dovrei farmi fare due analisi. E noi, sul tetto, abbiamo aspettato i tre botti finali quando già i bambini si erano stufati di guardare e correvano come matti intorno alla canna fumaria condominiale, in attesa più che altro di una fetta di cocomero. Tre BPFFFPBFF più che tre botti, ma sarà stata la distanza, vai a sapere. Poi giù una bussata d’acqua da allagare tutto, a sorpresa, e il fuggi-fuggi generale.

A tornare in casa noi ci mettiamo un secondo, il cocomero è fresco, c’è anche qualche birretta; i bimbi a turno prendono la mia tromba, in salotto, e mostrano incredibili doti di imitazione del barrito dell’elefante malato ma tanto nel condominio non c’è nessuno  a cui dare fastidio. Sono tutti laggiù, a scappare dal temporale che da noi, a un paio di chilometri, nemmeno s’è visto.

L’estate è finita. Grazie al cielo.

Pubblicato da Alessandro Melillo

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