Lucchetti

La chiave di torsione applica una lieve pressione; il ferro saggia ciascun pistone e, sequenzialmente, gioca con le tolleranze per sfruttare un difetto come un vantaggio. Se c’è qualcosa che illustra perfettamente il concetto tanto frainteso di “hacking” è proprio questo: forzare serrature. Chi riesce ad aprire una serratura sfruttandone gli inevitabili difetti di progettazione non è un barbaro berserker alle prese con un nemico da schiacciare; piuttosto, è un atleta del microscopico, un acrobata della falange, un esperto di logica applicata alla gestione degli attriti e dell’elasticità dei materiali.

A volte mi domando se non sia anche una metafora di come enti, governi o aziende ci illudano di tenere al sicuro i nostri dati personali facendoci credere che la loro tecnologia, il loro apparato normativo o la loro burocrazia possano arginare gli accessi non autorizzati grazie a un abile gioco di prestigio; un gioco che ci persuade solo perché non ne comprendiamo né possiamo gestirne le meccaniche.

Ma un lucchetto è solo un deterrente e i deterrenti funzionano proporzionalmente alla nostra capacità di valutarne l’efficacia; conoscevo un tipo che parcheggiava in qualsiasi posto volesse per il semplice fatto che la sanzione per divieto di sosta o mancato pagamento del parcheggio – decisamente significativa per i comuni mortali – era per lui irrilevante per via del reddito smisurato.

Il punto, comunque, è che c’è qualcosa di poetico, di meditativo, nell’aprire un lucchetto senza la chiave; è la consapevolezza di aver avuto la curiosità di capire il come laddove tutti si limitano a constatare il cosa. Quell’atteggiamento, che oggigiorno liquidiamo sbrigativamente con epiteti anglofoni spesso fuori contesto, definisce l’hacker. Una persona d’ingegno, che non si limita a individuare le regole in base alle quali le cose accadono, ma che sa piegarle, sfruttarle, adattarle per far sì che diventino utili.

E così, mentre nel corridoio vuoto risuona la conversazione tra un collega e una commissione di valutazione, in attesa del mio turno vedo gli armadietti dei ragazzi, la maggior parte vuota mentre alcuni ancora con il lucchetto attaccato, chiuso, nonostante le numerose esortazioni a toglierli prima della fine della scuola. La tentazione è troppo forte.
Quattro lucchetti in un quarto d’ora; a ben vedere è un tempo da schiappa, ma si fa quel che si può con pochi malmessi ferri autocostruiti a partire da oggetti che un tempo servivano a fare tutt’altra cosa, ovvero pulire l’asfalto.
Tre saltano abbastanza velocemente; quello a combinazione è un po’ più ostico, ma il vantaggio è che alla fine, una volta aperto, posso riutilizzarlo reimpostandone il codice. Per fare cosa non so; io detesto chiudere le cose sotto chiave. Al momento la soddisfazione maggiore è aver evitato la barbarie delle tronchesi, che si sarebbe abbattuta su di loro ad agosto.

Il collega è uscito, sorridente. Tocca a me.
Che faccio, parlo dei lucchetti o no?

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