Ricordando Saul Leiter

Ho scoperto Saul Leiter troppo tardi. Abituati come siamo a vedere la città attraverso occhi e obiettivi di fotografi più noti, spesso incapaci di vedere il bello nel consueto.
Saul Leiter minimizzava sul suo ruolo e scherzava sulla sua arte.
“Per costruire una carriera e avere successo occorre essere determinati. Bisogna essere ambiziosi. Io preferisco di gran lunga bere caffè, ascoltare musica e dipingere quando ne ho voglia”
Lui dipingeva e scattava perché ne aveva voglia e a quanto pare era uno di poche pretese. Un ombrello a margine del fotogramma, i mezzi pubblici, i lavoratori e una miriade di vetrine, appannate, limpide, coperte di pioggia, riflessi della vita reale.
Un brulicare di cose e persone intorno a lui da osservare e catturare senza tanta fretta, per parafrasare il titolo del documentario a lui dedicato.
Fotografare il normale, perché in definitiva è la felicità ad essere importante. Leiter non comprendeva il motivo per cui un fotografo dovesse credere che la rappresentazione dell’umana miseria potesse dare importanza allo scatto stesso, come in una sorta di ricompensa per aver sensibilizzato su un problema.
“Non credo che la miseria sia più profonda della felicità” diceva.
Come dargli torto?