Un angolo di Giappone

C’è, nel complicato scorrere dei miei giorni, un angolo di Giappone. Non in senso fisico, di spazio; non ho un’aiuola di ghiaia da pettinare a margine del giardino né furin che penzolano nella veranda in attesa di una brezza che non soffia mai. Si tratta di un luogo mentale che emerge all’improvviso trascendendo la fisicità e il deliberato confinare per sbocciare inaspettato nelle maniere più disparate; è sentire che qualcosa cambia, l’inevitabile trascorrere del tempo; è ascoltare le rane, a notte ormai fatta, che accompagnano il suono della tua passeggiata notturna; è percepire il passaggio delle stagioni, l’aria fresca di settembre, attendere l’autunno, desiderare novembre; è foderare inconsapevolmente il libro che sto leggendo oggi, per discrezione o – piuttosto – per non ostentare; è l’elogio della manualità, respirare trucioli di legno, la polvere del vialetto, riparare un oggetto che ti hanno chiesto di buttare; è prendersi cura delle piante, seminare come forma di speranza, come santificazione del futuro; è – proprio come stamani – stendere i cestelli ad asciugare e combattere un’improvvisa nostalgia prima di abbandonarvicisi e lasciare che il sole faccia il proprio lavoro.

Per me l’angolo di Giappone è tutto questo. Non la mitizzazione di una cultura, non l’essere otaku di quella stessa società che il concetto di otaku ha generato, rifocillato e porto con affettata gentilezza a un incantato Occidente.

Non occorre fingere di essere giapponese; è un diverso sentire nei nostri stessi gesti quotidiani; qualcosa che le foglie di quel novembre hanno cambiato, per sempre.

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