Spoonman

Ho i jeans e la camicia di flanella a quadri regolamentare; gli scarponi slacciati scricchiolano sulla ghiaia mentre vado alla macchina e carico la motosega nel bagagliaio. Poi salgo a bordo; accendo la radio, le casse esplodono mentre “Spoonman” dei Soundgarden riempie l’abitacolo e avvio il motore. Mi guardo nello specchietto; evidentemente radersi non è una priorità, anzi, al momento i miei pensieri vanno a una siepe da sistemare, all’amplificatore nel fine settimana, alla legna per il barbecue e a una birra.
È il 1994.
No, sto mentendo: è ieri, e sono passati trent’anni.
Ci sono una famiglia, una figlia, un lavoro abbastanza stabile, una serie di preoccupazioni e un’altra di soddisfazioni.
Ma le camicie e i jeans sono sempre gli stessi, mi godo il sole, i Pearl Jam continuano a fare dischi e forse si può avere vent’anni per sempre, chissà.
Se domani c’è il sole prendo l’accetta e sistemo un po’ di legna; poi suono, cucino, leggo, rifletto su una coscienza ecologica che già mi sento di tradire per opportunismo, o forse no.
Magari mi rado, che domenica è la festa del babbo e le coccole si fanno meglio da lisci.
E fanculo anche ai vent’anni.

Il pane in pentola

Sì, in tutta onestà se ho fatto questo acquisto il motivo era il pane. Certo, anche il poulet basquaise, la cassoulet, il brasato al barolo, il peposo e un’altra infinità di cose che con calma cucinerò per la gioia mia e di chi mi dà fiducia nel farmi stare ai fornelli.
Ma il pane, ecco. Questo volevo provare.
Certo, mi si potrebbe anche dire che con quel che costa la pentola chissà quanto pane avrei potuto comprare. Non moltissimo, a dire il vero; e poi c’è la soddisfazione, che non compri a bottega.
Questo pane è farina 1 del Molino Angeli e segale del Leitner Mühle, GIGGETTO© licoli, un pizzico di zigeunerkraut e un cucchiaino di malto d’orzo biologico.
La casa profuma di pane.
La cocotte Staub è un oggetto meraviglioso.

Capodanno 2023

No, niente foto di veglioni, fuochi d’artificio, familiari e amici.
Sono le immagini del primo gennaio, quello in cui tutti smaltiscono sbornie ed eccessi ma io sono innocente, vostro onore, il crimine non è stato commesso e quindi il fatto non costituisce reato. Il primo gennaio è quando nessuno è in giro, figuriamoci tra i Metati Rossi e Cerreta S.Nicola, proprio sotto al Folgorito; quando le nuvole non sanno se scendere o salire e ti trovi in un limbo dove tutto francamente appare meraviglioso. E c’è il mirto maturo, un sentiero delizioso, le rocce scistose che di solito vedo a rovescio, dal terrazzo di casa, funghi bizzarri di cui uno a forma di sella Brook’s.
E un po’ di pace.

France bizarre

Bizzarrie di un viaggio in Francia.
Una silhouette alla fine di un passaggio; organisti che studiano; le bianche vie di Poitiers; astronauti del biscotto; bevete latte; morte al patriarcato!; proboscidi meccaniche; libertà; suore turiste; attraversamento lontre; angeli riflessi; gendarmi drago; uomini e donne d’altri tempi; piccoli bistrot; Scrabble; maniche a vento orientali; consigli; divieti; sbadigli; sicurezza e inquietudine; perdersi con la bassa marea; verniciare in sicurezza; distributore di pizza; inchini professionali.
Ora non c’è che da scorrere le foto e associare le didascalie. Buon divertimento.

Ottobre e i fagioli

Seminerei i fagioli anche solo per vederli fiorire. Avevo questo sacchetto di strani fagioli giganti, neri, striati rosso fuoco, che mio cognato portò di ritorno da non ricordo neanche quale zona del centro Italia, e ne avevo tenuti un po’ per seminarli. I semi sono tesori. Propagare e mantenere la semenza è la mia forma di liturgia dell’unico culto che ritengo sensato, ovvero la devozione al pianeta.

Così scoprii a mie spese che non solo questa varietà pare alquanto restia alla germinazione, ma che l’estate del 2022 sarebbe stata troppo calda e secca perché una pianta di fagiolo – perché poi un solo fagiolo, alla fine, aveva germinato – diventasse produttiva.
Ma la pianta si è rivelata robusta, rustica, testarda; è cresciuta fino a sei metri d’altezza e ora che l’autunno è ormai iniziato non solo fiorisce ostinatamente e abbondantemente, ma così facendo attira e offre un’ancora di salvezza alle api che vengono a bottinare prima che il freddo decimi le loro speranze.
Così, se d’estate gli sparuti fiori non riuscivano neanche a salutarsi, ora le api fanno generosa opera di impollinazione e la pianta, in pieno ottobre, ha iniziato a maturare bacelli e a garantirsi la sopravvivenza.
A me, come dicevo, basterebbe anche soltanto vedere i fiori, dalla superba corallina geometria, quando al mattino mi affaccio sul terrazzo.

La pasta del fisico

Si fa un gran parlare della pasta cotta a fornello spento. Non che sia una novità; il cosiddetto metodo Agnesi risale agli anni ’30. Se uno avesse un minimo di passione per la cucina non avrebbe bisogno dell’eco dei social sulle affermazioni di un eminente fisico (che peraltro stimo non come gastronomo ma come difensore dei valori laici della scienza) perché conoscerebbe una dozzina di metodi diversi per cucinare un piatto di pasta e saprebbe peraltro che i diversi formati di pasta richiedono cotture differenti.
Quello su cui invece meriterebbe soffermarsi è il fatto che come al solito, al pari delle giornate in cui ci illuminiamo di meno per sbattercene allegramente i rimanenti 364 giorni dell’anno, ci piace, anzi, ci crogioliamo nel piacere di aver apparentemente escogitato un metodo per salvare il pianeta; un metodo così innovativo, sensazionale e tanto incredibilmente semplice da lasciarci immaginare che il nobel, tutto sommato, l’avrebbero benissimo potuto conferire a noi.
Dunque, facciamo un calcolo: cucinare un piatto di pasta nella maniera tradizionale fa consumare circa 0,2 m³ di gas, tra pasta e condimento. Sì, lo so, ci sono i condimenti a crudo ma oggi mi sento spendaccione. Il consumo annuo pro-capite di pasta in Italia è di 23 kg ovvero 1,4 milioni di tonnellate in totale. Significa che, anche facendo porzioni ridicole da 50 grammi, consumiamo 0,2 x 460 x 60.000.000 m³ di gas, ovvero circa 5,6 miliardi di metri cubi di gas. Questo se ognuno di noi cuocesse pasta e sugo solo per sé, solo soletto con la sua fedele pentola. Possiamo quindi tranquillamente dimezzare la cifra e saremo comunque abbondanti nella stima: 2,8 miliardi di metri cubi di gas. Uno studio dell’Unione Italiana Food ha rilevato che col metodo Agnesi il consumo per la sola cottura della pasta si riduce del 47%. In termini pratici significa che sul totale la riduzione è di circa il 23%, ovvero un risparmio di circa 0,7 miliardi di metri cubi di gas.
Corrisponde a un centesimo dei nostri consumi. Ottimisticamente parlando, dico.
Per una famiglia che consuma molto sono circa quindici euro l’anno.
Quindici euro dunque è la nuova tariffa familiare per lavarsi la coscienza.

Ma allora, ce lo spieghi perché nella foto si vedono fagiolini e due uova? Direte voi.
Quella nella foto è una pentola a pressione. La foto esemplifica quel che succede quando davvero si usa la fisica per cucinare. Cottura dei fagiolini: sei minuti. Cottura delle uova: sei minuti. Oltre al risparmio intrinseco della pentola a pressione – che riduce i tempi di cottura e all’incirca dimezza i consumi – c’è il vantaggio di poter combinare le cotture e portare il risparmio a un quarto. E non solo sulla pasta. In pentola a pressione io faccio il risotto (sempre sei minuti), la polenta (un quarto d’ora invece di quaranta minuti e neanche c’è da mescolarla), l’arrosto, le verdure, lo spezzatino, i legumi, le patate, i brasati, gli stufati, devo continuare? Lo so che ci siete arrivati da soli. Del resto siete premi Nobel, perdìo.

Ecco dove voglio andare a parare: la gente non usa la pentola a pressione. Esiste da oltre trecento anni, ha permesso la messa a punto della macchina a vapore e l’invenzione del motore a scoppio, è un gioiello d’ingegno ma la gente non la usa. Perlopiù perché (scusate, rido forte e poi torno) ha paura che esploda. Viaggia su dei 2000 cc a gasolio con serbatoi da sessanta litri ma teme la pentola a pressione.
Allora sentite me: smettetela di fare i pecoroni, di giocare al piccolo fisico ripetendo a pappagallo qualche articolo sulla pasta, con tutta la boria di quello che cucinando un piatto di terribili rigatoni pensa d’aver salvato il pianeta e combattuto l’infame minaccia sovietica.
Compratevi una maledetta pentola a pressione.
E sapete perché? Ci si può cucinare anche la pasta, sugo e tutto quanto, a partire dagli ingredienti crudi, con la metà dei grassi, un terzo del sale, senza soffritti, risparmiando tempo, denaro, sbattimento e gas. Ma che ve lo spiego a fare? Tanto non ce l’avete.
Non oso pensare a cosa potrebbe succedere se installaste delle valvole termostatiche, metteste il coperchio alle pentole, smetteste di stirare (io non l’ho mai fatto e sono sopravvissuto), vi vestiste d’inverno e vi spogliaste d’estate, unitamente a tutta un’altra nutrita serie di buone pratiche che, tutte insieme, renderebbero le minacce russe una ridicola barzelletta a cui rispondere a sonore pernacchie.

Oppure fate la pasta a fornello spento e sentitevi ganzi. Contenti voi…

Lucchetti

La chiave di torsione applica una lieve pressione; il ferro saggia ciascun pistone e, sequenzialmente, gioca con le tolleranze per sfruttare un difetto come un vantaggio. Se c’è qualcosa che illustra perfettamente il concetto tanto frainteso di “hacking” è proprio questo: forzare serrature. Chi riesce ad aprire una serratura sfruttandone gli inevitabili difetti di progettazione non è un barbaro berserker alle prese con un nemico da schiacciare; piuttosto, è un atleta del microscopico, un acrobata della falange, un esperto di logica applicata alla gestione degli attriti e dell’elasticità dei materiali.

A volte mi domando se non sia anche una metafora di come enti, governi o aziende ci illudano di tenere al sicuro i nostri dati personali facendoci credere che la loro tecnologia, il loro apparato normativo o la loro burocrazia possano arginare gli accessi non autorizzati grazie a un abile gioco di prestigio; un gioco che ci persuade solo perché non ne comprendiamo né possiamo gestirne le meccaniche.

Ma un lucchetto è solo un deterrente e i deterrenti funzionano proporzionalmente alla nostra capacità di valutarne l’efficacia; conoscevo un tipo che parcheggiava in qualsiasi posto volesse per il semplice fatto che la sanzione per divieto di sosta o mancato pagamento del parcheggio – decisamente significativa per i comuni mortali – era per lui irrilevante per via del reddito smisurato.

Il punto, comunque, è che c’è qualcosa di poetico, di meditativo, nell’aprire un lucchetto senza la chiave; è la consapevolezza di aver avuto la curiosità di capire il come laddove tutti si limitano a constatare il cosa. Quell’atteggiamento, che oggigiorno liquidiamo sbrigativamente con epiteti anglofoni spesso fuori contesto, definisce l’hacker. Una persona d’ingegno, che non si limita a individuare le regole in base alle quali le cose accadono, ma che sa piegarle, sfruttarle, adattarle per far sì che diventino utili.

E così, mentre nel corridoio vuoto risuona la conversazione tra un collega e una commissione di valutazione, in attesa del mio turno vedo gli armadietti dei ragazzi, la maggior parte vuota mentre alcuni ancora con il lucchetto attaccato, chiuso, nonostante le numerose esortazioni a toglierli prima della fine della scuola. La tentazione è troppo forte.
Quattro lucchetti in un quarto d’ora; a ben vedere è un tempo da schiappa, ma si fa quel che si può con pochi malmessi ferri autocostruiti a partire da oggetti che un tempo servivano a fare tutt’altra cosa, ovvero pulire l’asfalto.
Tre saltano abbastanza velocemente; quello a combinazione è un po’ più ostico, ma il vantaggio è che alla fine, una volta aperto, posso riutilizzarlo reimpostandone il codice. Per fare cosa non so; io detesto chiudere le cose sotto chiave. Al momento la soddisfazione maggiore è aver evitato la barbarie delle tronchesi, che si sarebbe abbattuta su di loro ad agosto.

Il collega è uscito, sorridente. Tocca a me.
Che faccio, parlo dei lucchetti o no?